testo di Bruno Capaci
Si è spento a Bologna, il 29 Agosto 2020, al termine di una lunga malattia, durante la quale ci ha offerto la sua ultima lezione nel proporci un vero galateo della sofferenza, Andrea Battistini, professore emerito dell’Alma Mater Studiorum- Università di Bologna, membro autorevolissimo del comitato scientifico del Centro studi “Piero Camporesi” e fattivo sostenitore delle sue attività, anche negli ultimi giorni della sua esistenza fortemente eteronoma.
Al Professore va l’abbraccio che non può raggiungerlo, ai componenti della comunità scientifica, agli studiosi e ai colleghi che lo hanno conosciuto la partecipazione del nostro enorme dolore.
Andrea Battistini, già direttore della rivista “Intersezioni”, si era dimostrato un cultore del dialogo tra letteratura e società ed era apparso a tutti come un italianista dedito a esplorare il terreno dei classici quanto quello degli irregolari, le ragioni della letteratura e quelle della scienza. Non a caso egli era tra i maggiori studiosi delle opere di Galileo, fin dalla prestigiosa edizione del Sidereus Nuncius . Un galileiano che amava Aristotele avendolo fatto suo, insieme a Vico, nei magistrali insegnamenti del corso di “Letteratura e retorica”.
Impeccabile studioso, docente dal dialogo tanto affabile con gli studenti, quanto rigoroso nel disegnare le mappe di un sapere provato e riprovato dall’esercizio di una critica letteraria restia alle pretestuose polemiche e piuttosto dedita a tracciare nuovi orizzonti, reciproche intersezioni tra i diversi domini del sapere, il Professore è stato un uomo la cui umanità è impressa nel ricordo di chi ha condiviso il convito di idee, di affetti e di buon cibo di cui era sapiente intenditore.
Italianista e cultore dell’ humanitas in ogni sua accezione, peculiarità e diversità, appariva a chi lo conoscesse nel dialogo pirotecnico, specialmente se sorto nell’attesa tra un sauté di tartufi di mare e un guanciale di cinta senese brasato al barolo, un amico il cui sorriso sornione resta oggi il motivo di maggiore mancanza e sincera disperazione.
Bruno Capaci
Testo di Francesco Ferretti
Nell’ufficio di Battistini, già svuotato con cura un mese prima che andasse in pensione, erano affisse poche locandine di incontri scientifici, le immagini dei quali parlavano da sole. Penso ad esempio ai volti idealizzati di Vico o Dante. C’erano, però, anche due immagini più difficili da interpretare. Sulla porta, un paio di mani aperte: mani rugose di lavoratore, ritratte in una foto in bianco e nero. Vicino alla finestra, La passeggiata di Chagall, il celebre quadro in cui il pittore si raffigura euforico, per mano a sua moglie volante, in quella posa surreale che tutti hanno in mente. La prima immagine, disse una volta da me richiesto, serve a ricordarmi che il lavoro intellettuale va svolto con l’impegno che si addice al lavoro manuale. La seconda, invece, gli era cara perché ritraeva la Felicità: una felicità iperbolica e fanciullesca. E poco conta (per Battistini, che sposato non era), che quel quadro sia un’allegoria nuziale: la gioia è universale.
Nel ringraziare la comunità accademica di Bologna per il conferimento del titolo di emerito, Battistini non solo ha dichiarato che a quel riconoscimento avrebbe sempre tenuto «più che a ogni altro», ma ha anche rivelato quanto egli fosse un maestro umile (riecco il senso delle mani aperte) e quanto pura fosse la sua felicità di studioso, come nel quadro di Chagall. Battistini, in quella sorta di addio, ha parlato di Raimondi come di un maestro-fornaio e proprio lui, che era di indole malinconica (come il suo Vico), si è scoperto felice per aver avuto la possibilità di fare il «mestiere più bello del mondo»:
In questa occasione per me così emozionante sento il dovere di rivolgere un pensiero grato ai miei maestri. Valga per tutti il professor Ezio Raimondi che, per continuare la metafora del pane [il pane degli angeli, cui aveva fatto riferimento in precedenza], è stato il miglior ‘fornaio’ che mai potessi avere. Per le mie origini non sarei certo stato destinato a studiare per tutta la vita come invece ho potuto fare grazie al suo insegnamento e al suo sostegno accademico (inutile negarlo), che mi ha permesso di fare il mestiere più bello del mondo, quello cioè di conoscere, di curiosare, di frugare un po’ in quante più direzioni possibili, con la stessa piena libertà di un vagabondaggio senza preclusioni.
Il sedicente vagabondaggio ha consentito a Battistini di ereditare in modo autonomo e originale – perché ogni lezione, per essere recepita, va rivissuta – l’insegnamento di Raimondi, conformandolo al proprio carattere, molto diverso rispetto a quello del maestro, al proprio pudore e alle proprie passioni. Questa libertà gli ha consentito, tra le altre cose, di diventare uno dei più autorevoli interpreti di Dante, di Galileo, del Barocco, di Vico, della cultura del Settecento, del genere autobiografico, dei rapporti tra letteratura e scienza, nonché di quelli tra letteratura e retorica e, ancora, della letteratura resistenziale. Ci sarà molto da lavorare, in futuro, per ricostruire le tappe e le evoluzioni di questo percorso, che non si esaurisce nei temi ricordati e che, paradossalmente, non si esaurisce nemmeno nelle quasi 900 pubblicazioni che Battistini ha firmato.
Battistini è stato, come si legge in una delle lettere che hanno promosso la sua candidatura a emerito, «uno dei maggiori umanisti, nel senso più pieno della parola, che la cultura europea abbia prodotto nell’ultimo mezzo secolo». Eppure riesce difficile elogiarlo, perché di lui si può dire quel che Faust afferma di Chirone: «Sei il vero grand’uomo, tu, / che non tollera elogi. / Per modestia si tira da parte / e fa come se ci fossero tanti simili a lui» (Faust II – Atto secondo, vv. 7353-6, trad. Fortini). Coerentemente, il centauro di Goethe, proprio come avrebbe fatto Battistini, rifiuta anche questo elogio a lui tributato da Faust. Anzi lo taccia di adulazione.
Oggi che nessuno può essere accusato di adularlo (del resto, lui, che era insigne conoscitore della retorica, rideva implacabile per ogni vacuo esercizio verbale), vorrei ricordare almeno un aspetto del suo magistero. Insegnare a leggere la complessità dei testi e a collocarla dentro la storia della cultura, per Battistini, rispondeva a una funzione civile: nelle aule dell’Alma Mater e delle innumerevoli altre istituzioni dove è stato invitato a parlare, come tra le righe della sua sintassi, fatta di periodi complessi, sì, ma nel contempo anche nitidi e luminosi, perché consentono al lettore di planare come un rapace sui fenomeni in esame. La ‘lettura’, in armonia col magistero di Raimondi, era considerata un’occasione di dialogo morale con l’alterità dell’autore e della sua cultura. E questa forma di rispetto ermeneutico, questo sforzo di restituire vita e presenza alle voci del passato, alle loro idee e alla loro espressione, ossia alle forze che hanno segnato la storia intellettuale dell’Italia e dell’Europa, avrebbe dovuto, anzi dovrebbe contribuire a corroborare le istituzioni democratiche. La funzione civilizzatrice attribuita alla critica letteraria mi pare la vis abdita che anima i suoi studi, sia quando indaga gli autori prediletti, che non a caso si situano all’incrocio tra letteratura, filosofia e scienza (Vico, Galileo, Dante), sia quando studia autori meno canonici (come, ad esempio, Francesco Lana Terzi o Renata Viganò), perché ai suoi occhi, come si legge nel saggio teorico Due più due uguale cinque, la letteratura, attraverso il linguaggio connotativo che le è proprio, è sempre, di per se stessa, fonte di conoscenza; ed è responsabilità di quel lettore speciale che è il critico di professione interpretare la complessità vertiginosa che questo tipo di linguaggio genera.
In controtendenza rispetto al presente, che impone anche ai docenti visibilità, riflettori, accattivante disseminazione del sapere o, come oggi si dice, terza missione (concetto che lo ha sempre lasciato perplesso), Battistini ha perseguito un altro obiettivo: il massimo della libertà intellettuale, ovvero il seme che dà origine alla democrazia, e che a sua volta insegna la democrazia a chi la vede praticata (in primis agli studenti), dentro al massimo rispetto per le istituzioni, in primis quelle universitarie. Proprio perché praticava la più spregiudicata libertà ermeneutica, sentendosi però sempre al servizio degli organi deputati alla conoscenza e all’insegnamento, non si è mai sottratto a qualsivoglia occasione di dialogo, sia che fosse un simposio internazionale, sia che fosse un evento locale di scarsa visibilità. Tanto lui, come sanno tutti quelli che lo hanno visto nei suoi spazi, non ti diceva mai, neppure sotto tortura, che lo avevano invitato a un convegno, anche se quasi ogni mercoledì veniva a fare lezione portandosi dietro la valigia (se l’è portata dietro anche in occasione della sua ultima lezione). Né, senza Internet, si sarebbe saputo se fosse andato a Imola oppure a Parigi. Essenziale, per lui, era condividere le istanze ideali e conoscitive, come sempre gli è riuscito di fare, con indole schiva e segreta letizia. E non a caso è sempre stato non solo ammirato, ma anche amato, profondamente amato, da tutti coloro che hanno avuto la fortuna di ascoltarlo davvero e di vederlo aprirsi, se mi si passa l’immagine, come il fiore di un cactus.
Francesco Ferretti
Testo di Andrea Cristiani
Per Andrea B.
Le parole degli interventi che mi hanno preceduto hanno fornito un quadro preciso e dettagliato della statura di AB: uomo di cultura a tutto tondo, uomo delle istituzioni vissute, praticate, intese come spirito di servizio, ideatore e promotore della Associazione degli Italianisti (ADI) e di altre iniziative culturali, collezionista di riconoscimenti prestigiosi, ovviamente né ricercati, né richiesti, docente sempre attento e disponibile nei confronti degli studenti, amico e maestro degli allievi più dotati, di cui, qui, è presente a ricordarlo uno dei più amati, e a lungo al suo fianco in qualità di collaboratore.
A me ora tocca il compito, tanto più ingrato ora che Andrea non c’è più, di un ricordo che entra nella sfera della nostra amicizia privata.
La nostra conoscenza e frequentazione sfiora ormai il mezzo secolo dentro il quale si sono incrociate e cresciute alcune passioni sempre coltivate: il mito del ciclismo; il mito del campionissimo Fausto Coppi (e chi sa e si riconosce nella figura grandiosa e dolente dell’atleta e dell’uomo, può capirne le ragioni); il mito dell’epopea della resistenza partigiana (avevamo costruito una piccola e selettiva biblioteca comune); l’amore profondo e incondizionato per Italo Calvino; l’amore sfrenato e goloso per la cucina di pesce. Di pesce povero, di fronte al quale l’espressione di Andrea beatamente si scioglieva forse anche nella memoria dei sapori e dei profumi dell’infanzia, della cucina di sua mamma, l’amatissima signora Novella.
Ma il discorso lungo questo sentiero si farebbe lunghissimo e probabilmente non interesserebbe che a pochi.
Quando nel 1990 uscirono per i Meridiani i due volumi delle Opere di Giambattista Vico, curate da Andrea, proiettandolo fin da subito da giovane maestro nel panorama della cultura letteraria italiana, come qualcuno ha opportunamente ricordato, Andrea me ne regalò un esemplare accompagnandolo con un breve scritto che leggerò.
Da fine e intelligente studioso dell’autobiografia sapeva non solo penetrare nella vita degli altri, ma leggeva anche con lucida chiarezza, a volte amara, dentro se stesso e dentro il mondo che lo circondava.
È un breve scritto, dicevo, che contiene alcuni passaggi dal sapore acre e malinconicamente dolente, ma che ci consegna anche un ritratto che la sua proverbiale discrezione, tenacemente coltivata nel tempo, raramente faceva trasparire. Perché in fondo possedeva quell’anima candida e schiva dei timidi che anelano venga loro comunicato, almeno una volta, un qualche calore di vicinanza umana. Il testo che accompagnava i due volumi delle Opere di Vico è il seguente.
18.XII. ’90. Caro Andrea, se delle mie tre copie di Vico una è destinata a te fin da prima che se ne vedesse la stampa, non è, naturalmente, perché tu ne faccia recensione (non me ne aspetto da nessuno, essendo io l’antitesi del potente accademico organizzatore alacre di presentazioni o altro), né per invitarti alla lettura di Vico (c’è ben altro che valga la pena di essere letto) ma per il credito che mi dimostri, seppur velato di sano pudore e di irriverenza carnevalesca. E siccome il resto del branco mi riserva al contrario gelidi silenzi, indifferenze ostentate o monologhi celebrativi del proprio presunto lavoro, per occultare quello degli altri, il destinatario (l’altro è inevitabilmente Raimondi) non potevi essere che tu, oasi rasserenante o albo lapillo di un ambiente che sto arrivando a disprezzare. Evidentemente non sono Agilulfo, se non riesco più a reprime il disgusto. O forse lo sono davvero, anche perché l’amato Calvino, alla fine, incrosta di terra la sua già linda armatura. O forse sono in realtà suor Teodora, che passa la vita facendo scorrere inutilmente la sua penna, sperando che qualcuno se ne accorga, e magari la scambi per Agilulfo. Per questo, come avrai capito, va a te la mia riconoscenza: per la felix culpa di aver visto l’inesistente, quando gli altri nemmeno vedono l’esistente. Andrea B.
Sono stato l’ultimo e il solo a vederlo sabato mattina all’Hospice del Bellaria prima che si abbandonasse ad un provvidenziale sonno che lo liberava dalla sofferenza, e da cui non si sarebbe più risvegliato. E guardandolo nel sonno che si faceva sempre più profondo lo immaginavo come Agilulfo che lasciava libera quella tensione della sua volontà che gli aveva permesso di essere, a modo suo, nel mondo. E sul prato sotto la quercia si distribuivano i «pezzi dell’armatura […] disposti come nell’intenzione di formare una piramide ordinata». Così nelle parole dell’autore della Trilogia dei nostri antenati. E ordine, precisione, rigore, esattezza, a volte maniacali almeno agli occhi più superficiali, avevano sempre guidato il lavoro intellettuale e, di riflesso, anche quello manuale, come ha ricordato Francesco Ferretti riportando le parole di Andrea che spiegavano il senso e il significato delle mani rugose nel manifesto che teneva appeso alla parete del suo studio.
Mi mancherà molto Andrea, e soprattutto mi mancheranno le sue letture, attente e puntuali di qualche mia scrittura, spesso accompagnate, volutamente, da iperbolici giudizi di approvazione che prendevano il tono di un amabile sfottimento. Un gioco a cui volentieri ci prestavamo entrambi con divertimento.
Ma nel ricordo e nella memoria sarà sempre quella bianca e lucente armatura, metafora del suo ingegno e della sua cultura, che tutti pubblicamente abbiamo ammirato ma che a lui, in privato, serviva anche a proteggere certe umane fragilità.
E se sarà per molti il bianco cavaliere dell’armata di Carlo Magno, quell’Agilulfo Emo Bertrandino dei Duildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, dal nome e dai titoli nobilmente altisonanti, per alcuni di noi sarà sempre, nei ricordi più privati e conviviali, semplicemente il “vecchio Batti”, nato e cresciuto nella sua amata città, in via Vizzani 32.
Andrea Cristiani