La buona scuola [novembre 2014]

Interventi Adi-sd e Adi con altre associazioni di Area 10

Anno:
2014

La buona scuola - documenti e interventi

  1. Documento Adi - sd

  2. Documento congiunto di Associazioni disciplinari di area 10

    Documento dei presidenti e i direttivi delle Associazioni e Consulte disciplinari SIFR (Società italiana di Filologia romanza), ADI (Associazione degli italianisti italiani), MOD (Società italiana per lo studio della modernità letteraria), ASLI (Associazione per la storia della lingua italiana), SFLI (Società di filologia italiana), SLI (Società di linguistica italiana), SIG (Società italiana di glottologia), AItLA, (Associazione italiana per la Linguistica applicata), rappresentanti rispettivamente dei settori scientifico-disciplinari L-FIL-LET/09 “Filologia e linguistica romanza”, L-FIL-LET/10 “Letteratura italiana”, L-FIL-LET/011 “Letteratura italiana contemporanea”, L-FIL-LET/12 “Linguistica italiana”, L-FIL-LET/13 (Filologia italiana), L-LIN/01 “Linguistica e glottologia”, L-LIN/02 “Didattica delle lingue moderne” afferenti all’Area 10 del CUN, dopo incontri e consultazioni telematiche, hanno approvato le seguente osservazioni al documento La Buona Scuola.]

    A.D.I.sd.


Associazione degli Italianisti – Sezione didattica

La buona scuola che vogliamo

Il rapporto La buona scuola. Facciamo crescere il paese, pubblicato dal governo Renzi il 3 settembre 2014, propone all’attenzione dell’opinione pubblica il tema cruciale della formazione dei giovani, riaprendo sulla scuola il confronto fra le diverse componenti sociali e professionali.

Anche noi Italianisti dell’ADI-sd interveniamo nel dibattito, nell’auspicio che per la scuola italiana si possa elaborare una progettualità politica e culturale di lunga gittata e, nell’immediato, si possano realizzare interventi concreti, poiché dare qualità e risorse alla scuola significa dare «qualità alla democrazia». Come dichiara il rapporto, sarebbe dannoso continuare oggi «a pensare in piccolo, a restare sui sentieri battuti degli ultimi decenni» (Rapporto, p. 2).

Le nostre osservazioni A differenza di altri documenti del passato, nazionali ed internazionali, il testo non affronta due interrogativi strategici:

- quali sono i principi ispiratori e le direttrici culturali più significative da seguire per realizzare l’obiettivo di una “buona scuola”? - di quali dimensioni psico-pedagogiche, epistemologiche, didattiche e sociali, è necessario tener conto, in relazione ai soggetti dell’apprendimento, per conferire efficacia, nel presente e nel futuro, alle ipotesi prescelte?

Il rapporto governativo segue invece un percorso focalizzato su aspetti di natura politico-amministrativa e solo “di scorcio” riprende e fa proprie elaborazioni e tematiche già affrontate nel mondo scolastico, inserendole, con un proprio linguaggio, nel tessuto argomentativo sviluppato.

Risulta apprezzabile il fatto che venga affrontato un problema gravoso e non più rinviabile come quello del precariato (oggetto di un pronunciamento della Corte Europea), offrendo al dibattito un’ipotesi di soluzione; altrettanto si può dire, in generale, dei provvedimenti concernenti l’organico funzionale dei docenti; della piena attuazione delle reti di scuole sul territorio; del ripristino del tempo pieno; della semplificazione burocratica.

Emerge inoltre un’attenzione al profilo e al ruolo del docente, dalla formazione iniziale ai momenti di crescita della professionalità, dalla differenziazione di compiti e figure organizzative alla progressione di carriera.

Sulle risorse economiche – ora ulteriormente decurtate dalla recente legge di stabilità (art. 28) – e sulle azioni prospettate per rendere concrete ed efficaci tali proposte sono state sollevate, nell’ampio dibattito pubblico fin qui svoltosi, condivisibili perplessità e critiche - individuali e collettive - riferite tra l’altro all’assenza, nel rapporto, di spazi dedicati alla legittima contrattazione sindacale tra le parti.

Dal canto nostro siamo profondamente interessati al progetto di ridisegnare un profilo del docente, fondato su una qualificazione culturale e professionale realmente certificabile in modo congruente alla funzione, che riconosca diritti e dignità a tutti gli insegnanti. Vogliamo tuttavia sottolineare che questo riconoscimento passa anche attraverso la via di una valorizzazione economica significativa, tanto più improcrastinabile quanto più, negli ultimi anni, è stata ripetutamente disattesa a causa della logica dei tagli. Per questo suscita la nostra convinta disapprovazione la sostanziale decurtazione degli adeguamenti stipendiali (scatti), che si nasconde sotto la dichiarata valorizzazione del merito.

Il Rapporto del Governo fotografa l’attuale sistema, con particolare impegno nel fornire, per alcuni aspetti, dettagli anche numericamente precisi. Non tiene conto, però, di innumerevoli esperienze che nella scuola si sono sviluppate negli anni recenti e, in alcuni casi, sono ancora in corso. Si tratta di un patrimonio di progetti, ricerche, sperimentazioni e riflessioni che non va ignorato né disperso, ma va piuttosto valorizzato, in quanto frutto dell’impegno di tanti insegnanti che si sono misurati con le diverse situazioni critiche, con la necessità dell’innovazione della didattica disciplinare e per competenze o con le urgenze che il contesto degli ultimi anni ha prodotto, anche in vista delle valutazioni, nazionali e internazionali.

Raccomandazioni

Centralità dello studente.

Entrando maggiormente nel merito del progetto educativo, ci preme ribadire come primo punto la centralità dello studente. I bisogni formativi dei giovani, destinatari e soggetti del sistema di istruzione, tracciano le coordinate del nostro sguardo sulla scuola e sull’intreccio delle implicazioni cognitive, sociali, civiche, emotive e critiche, sotteso a ogni processo di apprendimento/insegnamento. Quando ci chiediamo quali cittadini immaginiamo nell’umanità del futuro, non sono solo i documenti di indirizzo europei a dirci che dovranno possedere strumenti e competenze molteplici ed elastiche, per inserirsi in un mondo complesso e multiculturale, instabile, fluido, nel quale una trasformazione veloce investe in profondità i modelli culturali, la produzione e la fruizione dei beni, le modalità di partecipazione politica, l’esercizio dei diritti, l’accesso all’informazione. In questo contesto, un aggancio pratico ed estemporaneo con le realtà economiche o produttive del territorio non è sufficiente per dare agli studenti la reale misura di cosa sia il mondo del lavoro. Ciò che serve è un bagaglio di sapere solido, aperto e critico, che consenta di orientarsi nella complessa e contraddittoria interazione tra globale e locale, tra interessi economici e diritti inalienabili.

La didattica laboratoriale.

Ben venga il potenziamento delle dotazioni tecnologiche delle scuole, che il Rapporto promette, purché non si generi un equivoco: deve restare chiaro che le tecnologie sono esclusivamente strumenti, non risposte o soluzioni ai problemi della scuola. In primo luogo, il discrimine che rende utili ed efficaci i supporti tecnologici è la consapevolezza culturale, non l’abilità strumentale, del docente. In secondo luogo, la metodologia euristica e la didattica laboratoriale non riguardano solo l’ambito tecnico-scientifico ma anche l’area umanistica. A nostro avviso, proprio la didattica laboratoriale e attiva, incoraggiando in classe la responsabilità, la cooperazione e la reciprocità orizzontale e verticale, può anzi potenziare in tutti gli indirizzi scolastici la funzione formativa e critica dello studio letterario, indispensabile, al pari di quelli linguistico-comunicativo e storico-artistico, per l’acquisizione di competenze argomentative e interpretative, di categorie di giudizio, di strumenti culturali per l’esercizio consapevole della cittadinanza.

Il profilo degli insegnanti.

Corollario evidente di questa pluralità di compiti formativi è la trasformazione delle responsabilità degli insegnanti, il cui profilo professionale richiederebbe certo nuove competenze, come quelle già elencate da Perrenoud (Dieci Nuove Competenze per Insegnare. Invito al viaggio, Roma, Anicia 2002), ma anche inediti riconoscimenti sociali della loro funzione intellettuale di mediazione, tra le generazioni, di saperi, di memorie, di lingue e culture.

Oltre a una padronanza ampia e strutturata dei propri ambiti disciplinari e alla consapevolezza della spendibilità didattica delle conoscenze, è indubbio che un buon docente debba avere anche la disponibilità al diritto-dovere della formazione continua (lifelong learning), per ridefinire saperi, quadri teorici e competenze metodologico-didattiche disciplinari da verificare in situazione. Tuttavia, se si conviene che l’abitudine metariflessiva, il lavoro cooperativo e la capacità di “imparare ad imparare” sono oggi requisiti ineludibili della professionalità docente, perché «mettersi in gioco paga» (Rapporto, p. 44), anzitutto nel lavoro in aula, allora l’impegno governativo per favorirne l’acquisizione dovrebbe essere prioritario e incondizionato. Per questo la formazione degli insegnanti, iniziale e in servizio, è, a nostro avviso, il nodo cruciale sul quale si misura ogni progetto credibile di miglioramento della scuola.

La formazione iniziale.

La prima formazione, che spetta all’università, deve avere un profilo scientifico forte; la sola laurea triennale non garantisce la padronanza disciplinare ed epistemologica necessaria per insegnare. Una reale competenza didattica di Lingua e Letteratura, per esempio, aperta all’interdisciplinarità, all’interculturalità, all’attualizzazione, ma anche all’impiego sensato delle nuove tecnologie a supporto della metodologia laboratoriale, implica teoria e riflessione interne ai saperi disciplinari. È nostra convinzione, infatti, che solo una salda preparazione possa garantire una efficace mediazione didattica, attenta sia ai contesti di insegnamento/apprendimento sia agli specifici statuti epistemologici e critici. Ci preoccupa molto perciò l’idea di destinare il biennio di specializzazione a non ben precisati corsi di didattica e pedagogia «per materie affini». In tale modo anche la formazione iniziale verrebbe fatta al ribasso, a scapito di una competenza disciplinare e didattica di qualità.

La formazione in servizio.

Incondizionato è il nostro apprezzamento per la decisione di far tornare obbligatoria la formazione in servizio: lo giudichiamo un passo decisivo e indispensabile per qualificare il profilo degli insegnanti, come di chiunque svolga una professione intellettuale. Non possiamo che condividere i passaggi del Rapporto in cui, a proposito della formazione dei docenti e della tassonomia delle loro competenze, si insiste sul sapere critico e non «solo codificato» (pp. 45-46) e sul «superamento di approcci formativi a base teorica» (p. 47).

Su un aspetto tuttavia è necessaria la massima trasparenza: laddove si collega la formazione in servizio alla carriera e all’avanzamento stipendiale, si introduce il sistema dei crediti, di diverse tipologie. Le procedure di acquisizione dei crediti appaiono ambigue e farraginose: a “valere” per la progressione in carriera saranno incarichi e attività connesse con il funzionamento della scuola, e non con la formazione culturale, la sperimentazione didattica, la riflessione. Si profila il rischio di isterilire irrimediabilmente il rapporto degli insegnanti con il sapere, e di indurre i docenti ad impegnarsi in una ardua e macchinosa competizione, che non gioverà alla buona cooperazione. Inevitabile domandarsi se il docente mentor (o aspirante tale), in quei nove anni che gli serviranno ad accreditarsi per avere gli “scatti di competenza”, avrà tempo per leggere qualche libro.

Ma anche altri scenari si profilano: un docente più propenso a coltivarsi intellettualmente, e magari disinteressato a scatti di carriera e a incrementi stipendiali così congegnati, risulterebbe un docente di serie B? Economicamente e socialmente svilito?

Pertanto riteniamo opportuno, in questo ambito, non agganciare la progressione in carriera a sistemi di “crediti” del tipo prospettato nel Rapporto, ma piuttosto rendere realmente obbligatoria la formazione in servizio nei fatti, oltre che come affermazione di principio. Questo significa, nei nostri auspici, non solo incoraggiare la partecipazione a corsi e conferenze o lezioni concedendo i permessi di studio, ma, soprattutto, impegnare il docente in progetti di ricerca e sperimentazione didattico-disciplinare, in cui lo studio sia accompagnato da attività seminariali, lavoro cooperativo ed elaborazione didattica.

Inutile nascondersi che una formazione così concepita esigerebbe un investimento economico, oltre che un impegno politico, contraddetto, peraltro, dalle misure previste dalla Legge di stabilità 2015. Riqualificare la scuola significa anche iniziare a pensare ai docenti non solo come un capitolo di spesa, ma, soprattutto, come risorse intellettuali.

Il rapporto della scuola con l’Università.

La formazione iniziale e in servizio degli insegnanti andrebbe affrontata in un’ottica di sinergia e di reciproco scambio tra docenti dell’università e della scuola, nel solco delle SSIS e di alcuni progetti-pilota nazionali. La separazione, se non la contrapposizione, della ricerca dalla pratica didattica, la prima affidata alla sola Università e la seconda unicamente alla scuola, è inefficace oltre che fuorviante, poiché nelle aule di entrambe le istituzioni formative didattica e teoria, ricerca e azione, oggi sono allo stesso modo inscindibili, interdipendenti e necessarie.

Conclusioni

Su altre questioni, connesse con il documento, sarà indispensabile avviare un confronto serio, approfondito e a lungo termine; ci limitiamo per ora ad una lista sommaria che comprende:

- la realizzazione effettiva dell’obbligo scolastico a 16 anni; - gli interventi compensativi finalizzati all’integrazione delle situazioni più svantaggiate ed alla loro perequazione con quelle più fortunate; - la “lenta digestione” (cui si accenna nel Rapporto) delle Indicazioni ministeriali; - la messa a regime delle scuole di specializzazione (TFA); - la costruzione di curricoli dal basso realizzando forme concrete di autonomia scolastica; - il ruolo della valutazione di sistema.

L’arco dei problemi aperti è talmente ampio che non possiamo, per il momento, che ribadire il nostro interesse e la nostra disponibilità a proseguire nella riflessione e nel confronto.


Documento Adi con altre Associazioni di area 10

I presidenti e i direttivi delle Associazioni e Consulte disciplinari SIFR (Società italiana di Filologia romanza), ADI (Associazione degli italianisti italiani), MOD (Società italiana per lo studio della modernità letteraria), ASLI (Associazione per la storia della lingua italiana), SFLI (Società di filologia italiana), SLI (Società di linguistica italiana), SIG (Società italiana di glottologia), AItLA, (Associazione italiana per la Linguistica applicata), rappresentanti rispettivamente dei settori scientifico-disciplinari L-FIL-LET/09 “Filologia e linguistica romanza”, L-FIL-LET/10 “Letteratura italiana”, L-FIL-LET/011 “Letteratura italiana contemporanea”, L-FIL-LET/12 “Linguistica italiana”, L-FIL-LET/13 (Filologia italiana), L-LIN/01 “Linguistica e glottologia”, L-LIN/02 “Didattica delle lingue moderne” afferenti all’Area 10 del CUN, dopo incontri e consultazioni telematiche, hanno approvato le seguente osservazioni al documento La Buona Scuola.

Reclutamento degli insegnanti

Classi di concorso

Nel paragrafo 1.3 del documento si fa un breve cenno alla possibilità di “allargare” le classi di concorso in vista di “abbinamenti necessari” per consentire le assunzioni programmate entro il 2015-2016, ma nel paragrafo 1.8 dedicato al reclutamento non si fa alcun cenno alla revisione delle classi di concorso. È necessario capire se gli “abbinamenti” siano considerati solo un modo transitorio di utilizzare i docenti da assumere, facendoli transitare tra classi affini, o se sarà un principio che guiderà la revisione delle classi.

L’accorpamento di un numero maggiore di discipline nelle classi di concorso dei docenti delle scuole secondarie di secondo grado avrebbe conseguenze scientifiche e didattiche dannosissime. Se, come sembra ribadire anche il documento, l’accesso alle lauree magistrali per l’abilitazione sarà garantito dalla laurea triennale, non possiamo non tener conto che la preparazione dei laureati in Lettere di primo livello non copre più tutti i contenuti dell’intero arco disciplinare. È un dato di fatto che ormai non può più essere ignorato. In nessun paese europeo gli insegnanti delle scuole secondarie si abilitano o si specializzano per insegnare così tante discipline contemporaneamente. Raggiungere una conoscenza completa dei contenuti e delle metodologie di insegnamento che riguardano la lingua italiana e la letteratura italiana significa ormai doversi concentrare solo su questi settori e lo stesso si dica per gli altri ambiti. Le attuali classi di concorso devono essere semplificate e non estese aggiungendo altri insegnamenti. Sarebbe opportuno pensare a una “classe” per l’italiano.

Percorso per l’abilitazione

Nel documento non sono sufficientemente chiare le indicazioni sul percorso che condurrà all’abilitazione. All’inizio del paragrafo 1.8 si dice che l’attuale sistema, previsto dal DM 249 del 2010, è fondato sul TFA (cui si sono aggiunti i PAS), ma si dimentica di dire che il DM 249/10 prevedeva queste due attivazioni del TFA solo come Norme transitorie, mentre non sono mai state attuate (e quindi neppure verificate) le disposizioni sulle lauree magistrali per l’insegnamento. Si legge, in particolare, che lo studente “seguirà corsi di didattica e pedagogia, e in generale materie mirate sul lavoro di formazione e crescita dei ragazzi”. È bene ricordare, senza voler sminuire la rilevanza della preparazione didattico-pedagogica, che senza un rapporto equilibrato fra trasferimento del sapere e modi della sua trasmissione non si otterrà mai un innalzamento dell’istruzione nella società. Nella situazione attuale, solo nel caso di abilitazioni specifiche, che riducano il numero delle discipline nelle classi di concorso, si potrebbe pensare di esaurire l’acquisizione delle conoscenze disciplinari nell’arco del triennio, ma ciò sembra contraddetto da quanto si legge nel documento a proposito del fatto che “specifici bienni specialistici potranno funzionare anche per materie affini, evitando di doverne istituire uno diverso corrispondente con rapporto 1:1 a ogni diverso tipo di laurea oggi esistente”.

Università e reclutamento degli insegnanti

Il documento non fa alcun riferimento alla partecipazione e al ruolo essenziale che le Università hanno avuto e hanno nel reclutamento e nella formazione degli insegnanti. Tra la scuola e l’università si sono consolidate in questi anni collaborazioni importanti, che hanno dato risultati tangibili sia nella formazione iniziale degli insegnanti sia in quella in itinere. Spezzare questa cooperazione vorrebbe dire ridurre la portata dell’innovazione scolastica che si intende attuare. È indispensabile una consultazione ampia e un coinvolgimento delle università e dei settori coinvolti nell’insegnamento scolastico prima di procedere a qualsiasi revisione del percorso per l’abilitazione.

Le competenze degli studenti

Stupisce, nel capitolo 4 del documento dedicato alle discipline insegnate a scuola, la totale assenza di riferimenti all’insegnamento dell’italiano e alla riflessione linguistica, nonostante gli scarsi risultati raggiunti dall’Italia nei rilevamenti OCSE sulla padronanza della prima lingua.

È più che doveroso sottolineare la necessità di assegnare il giusto spazio alla musica e alla storia dell’arte, entrambe essenziali per la formazione dei giovani e per la ricostruzione della nostra storia, ma non ci si spiega il silenzio su alcune delle emergenze oggi così visibili e denunciate da più parti. Il silenzio è tanto più grave quanto più precaria diviene oggi la competenza nella lingua nazionale, una situazione che è stata più volte denunciata dalle associazioni anche da istituzioni come le Accademie della Crusca e dei Lincei, che hanno sottolineato i deficit allarmanti degli studenti nella comprensione dei testi, nella loro produzione e nella padronanza di un lessico adeguato a rappresentare ogni realtà e situazione. Se è vero, infatti, che oggi più che mai le giovani generazioni comunicano e scrivono ricorrendo di continuo all’italiano, è anche vero che all’espressione linguistica quotidiana solo poche volte si affianca il dominio di una lingua utile agli usi professionali, all’argomentazione, alle situazioni formali e a tutto ciò che il buon inserimento nella società e nel lavoro richiede. Una conoscenza diffusa e piena della lingua madre, che comprenda un repertorio lessicale ampio, una consapevolezza piena nel mutare i registri, un’agilità sicura nell’uso della sintassi, non solo è l’unica base possibile per l’apprendimento di altre lingue, ma è soprattutto il pilastro indispensabile per la costruzione di una società democratica e progredita che voglia confrontarsi con il futuro.

Pari attenzione meritano, d’altro canto, le realtà plurilingui che si vanno creando con lo stabilizzarsi di ampie comunità di immigrati nel nostro paese. La compresenza di lingue diverse non deve diventare motivo di divisione o causa di conflitto; al contrario, la loro convivenza può essere utilizzata, soprattutto a scuola, per instaurare rapporti costruttivi tra le culture e ampliare gli orizzonti cognitivi dei singoli. È ben noto a ogni linguista che conoscere e usare più lingue è un fattore di ricchezza intellettuale, oltre che uno strumento di crescita culturale e sociale.

Come conciliare, dunque, la compresenza di tante discipline irrinunciabili come la storia, la matematica, l’italiano, l’arte, la musica e così via con la drastica riduzione del numero delle ore di insegnamento e, in particolare, con la sensibile riduzione delle ore destinate all’italiano? Sarebbe necessario ripensare all’intera distribuzione degli orari e ancor più alle ore complessive di permanenza degli studenti a scuola.

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